Sembrava Bellezza
La scrittura di Teresa Ciabatti somiglia a un labirinto di intelligenti intrecci: impossibile non perdercisi. E’ scarno e asciutto; non fa sconti, chiede impegno e restituisce dubbi.
I libri di Teresa Ciabatti che ho letto finora non mi sono piaciuti.
“La più amata” e ora “Sembrava bellezza” mi hanno infastidita come poche altre volte
è capitato. Potrebbe essere un pregio se a infastidirmi fossero state le storie
scomode, ma ciò che mi ha stancato è il gioco di specchi tra l’autrice e la
voce narrante. Un gioco costruito con supponenza e un inutile egocentrismo.
Sembrava bellezza parla
con la voce di una scrittrice alla soglia dei cinquant’anni, che ha raggiunto
il successo tardi e che ora ha l’impressione che stia svanendo. Una donna con
un successo esteriore e troppe macerie dentro. E’ stata una adolescente
sbagliata e inadeguata, non abbastanza carina e poco amata (ci sono adolescenti
che si sono sentite diverse da questa descrizione?). E’ una donna separata e
con relazioni instabili; una madre troppo impegnata con se stessa per poter
davvero essere materna.
Il passato che non ha mai smesso di inseguire riappare, e le chiede di farci i
conti, con Federica, la sua migliore amica ai tempi del liceo, e con sua
sorella Livia: la ragazza perfetta che tutte vorrebbero essere e tutti
desiderano. Ma la bellezza di Livia è apparente, mentre presentissimo è l’incidente
che l’ha lasciata imperfetta per sempre regalandole un'eterna giovinezza che
allo stesso tempo la imprigiona.
Con la metafora della
botola nel camerino (una leggenda metropolitana degli anni ’80, successiva alla
sparizione di Emanuela Orlandi, raccontava di una botola un negozio romano
nella quale sarebbero scomparse diverse ragazze), Ciabatti apre il racconta allo
smarrimento doloroso dell’adolescenza che sembra persistere anche in un’età che
non è matura ma solo più vecchia; svela emozioni che nessuno di noi ha voglia
di riconoscere: l’invidia per l’altro, la rabbia, anche la cattiveria, il
desiderio sottile di una vendetta.
Peccato che tutto questo venga schiacciato dalla domanda, presente anche ne “La
più amata”, se la storia è vera o se solo finzione. Ciabatti non resiste a
porre se stessa al centro della narrazione, esibendo compiaciuta la propria
intelligenza e la capacità di una scrittura che gioca, strumentalizzandola, con la
curiosità pettegola e morbosa del lettore.
Peccato che Livia resti a fare da cornice alla voce narrante e non si prenda
altro che il titolo del libro.
Ho aperto il libro, con un po’ di scetticismo dopo la prima esperienza de “La
più amata”, per le innumerevoli recensioni positive e gli elogi all’autrice
come a una delle migliori voci della nostra narrativa. L’ho chiuso con il
fastidio e la stanchezza per aver trovato un ego invadente che mi ha impedito
di provare un autentico sentimento verso la protagonista della storia.
Peccato.
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