Ci si racconta favole

E' stato come aprire gli occhi in piena notte e accorgersi di essere ben svegli. Si vorrebbe tornare a dormire ma ormai sembra impossibile.
Ecco.
Mi sono raccontata una favola bella e non so per quale motivo mi sia, da sola, svelata la verità.
Ho amato per tanti anni il ricordo di una nonna che non ho avuto. Probabilmente ho amato il suo ricordo più di quanto abbia amato lei, perché quando era con noi non mi chiedevo se e quanto l'amassi: c'era; amore compreso.
Ho conosciuto una nonna malata, fragile, sempre presente con una discrezione rara. Una nonna che era come l'impronta che ha lasciato sul divano che occupava solo lei. Una nonna preziosa più dei fili che intrecciava ma, forse, non nel modo in cui l'ho raccontata alla mia memoria: mi sono raccontata la nonna che avrei voluto e che lei non era. 
Con la mia nonna non ho ricordi di giochi, passeggiate a prendere un gelato, chiacchierate confidenziali. Tutto questo, e molto altro, lo stanno vivendo i miei figli.
La mia nonna era la nonna che cucinava come cucina ora la mia mamma, che creava trame preziose con l'uncinetto che ho provato a ereditare.
La mia nonna era la nonna di un tempo: anziana per definizione come adesso non è più concesso nemmeno alle nonne.
Ha segnato così tanto il mio essere bambina insieme a lei, e ancor di più lo hanno segnato i giorni della sua assenza, che è diventato più reale il racconto del vissuto.
Eppure dirmi che non era stata la nonna che ho disegnato nel mio ricordo, mi fa sentire più sola. Perché è un altro passo verso l'abbandono del sentirsi accuditi e verso il ruolo ormai pervasivo del prendersi cura. E' la consapevolezza di sapere che nessuno raccoglierà la mia stanchezza per renderla più leggera.

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