Caro Te
Caro Te.
Abbiamo scelto di non dare nome ai gesti, alle
conversazioni, al gioco di queste ultime settimane. Sappiamo bene, entrambi,
che i nomi rendono reali le situazioni e abbiamo scelto, in un muto comune
accordo, di preservarci da un dolore che a pronunciarlo sarebbe stato senza
ritorno.
Caro Te.
Che non riconosco nel disegno che di te ho tracciato, in
tanti anni. Nel racconto che tu mi hai narrato, in tanti anni. Che mi fai un po’
tenerezza e un po’ rabbia nel tuo facile aderire ai luoghi comuni che hai sempre irriso negli altri: dell’età,
dell’appartenenza di genere.
Caro Te.
Che hai intuito il mio sapere e maldestramente provi a
tacitare il mio sentire e il mio dire composto da parole sconnesse, all'apparenza; pronunciate nel buio per non rischiare di oltrepassare la linea di confine che
abbiamo tracciato. Convinto, come sempre, che il non dire, il lasciar passare
il tempo, sia la migliore scelta possibile. E che ancora, dopo tanti anni, non
hai compreso che sono allergica alla polvere: anche a quella ben nascosta sotto
il tappeto.
Caro Te.
Che a parole mi accarezzi e nei fatti sottovaluti la mia
capacità di comprenderti. Che banalmente mi ferisci con testarda leggerezza
senza nemmeno provare a medicare le mie piaghe se non con rimedi che portino
piacere anche a te. Il cui individualismo non mi stupisce: mi stupisce l’egoismo,
che non ti era mai appartenuto, prima.
Caro Te.
Che vorrei picchiare, mordere, ferire come stai facendo tu
con me.
Che vorrei riavere come forse non ti ho mai avuto. Perché in tutto questo, forse, ho compreso che non sei mai stato mio; che mi hai sempre mentito giocando il gioco del ribaltone: io, quella che nasconde; io, quella che tratta male; io, quella che ha reso la tua vita la fatica che dici di sentire; io, quella impossibile da perdonare.
Che vorrei riavere come forse non ti ho mai avuto. Perché in tutto questo, forse, ho compreso che non sei mai stato mio; che mi hai sempre mentito giocando il gioco del ribaltone: io, quella che nasconde; io, quella che tratta male; io, quella che ha reso la tua vita la fatica che dici di sentire; io, quella impossibile da perdonare.
Caro Te.
Ieri pensavo alle crepe che portiamo addosso, tu e io. E
come quando da bambini non si riesce a lasciar stare la ferita e se ne staccano
le crosticine, così ora non riesco a non mettere il dito, posare lo sguardo,
indirizzare i pensieri, sull'ultima di queste crepe. Dalle crepe può uscire
luce. E può entrare il buio. Le mie mani
stanno scavando meno di quello che vorrebbero: le tengo a bada. Sono già state
ferite da un lavorio simile e non voglio più che si rovinino così. Non questa
volta.
Caro Te.
Ti ho chiesto, qualche sera fa, se mi vuoi bene. Domanda
retorica che ha trovato una risposta scontata.
Te lo chiedo ancora: mi vuoi bene? Perché io ho compreso
quanto te ne voglio proprio nel momento in cui più mi hai ferita. Il mio
pensiero, egocentrico e vanitoso, è stato: voglio che stia bene. E se per star
bene ha bisogno di questo, ok: posso farcela.
Ora non sono più così sicura di riuscire a farcela. Resto
sicura del bene che ti voglio. Che è più dell’amore che ti porto. L’amore, tra
un uomo e una donna, implica sempre una parte di possesso. Il voler bene è più
rotondo, più comprensivo e includente.
Caro Te.
Non so perché ti stia scrivendo da questo non posto che
nemmeno frequenti. Non penso serviranno i miei goffi tentativi di sembrare
bella per te.
So che voglio dirti anche un piccolo grazie: perché di questo
gioco doloroso salvo le nostre notti; perché ho iniziato un percorso di libertà
che forse non avrei mai scoperto, non fosse stato per il bene che ti voglio.
So anche che voglio dirti “vaffanculo” ma non so farlo. Non
sono nemmeno sicura di come si scrive! Perché sai davvero essere lucidamente spietato.
Perché riesci sempre a farmi sentire in colpa per come sono mentre mi uccidi
con precisione e lentezza chirurgica. Perché stai giocando a un gioco che
rischia di far saltare in aria tutto quello che di bello, miracolosamente, abbiamo
costruito in tanti anni.
Caro Te.
Quello che non riesco proprio a perdonarti è lo spregio che vedo alla
tua intelligenza. Intelligenza che mi ha fatto innamorare di te e che
ancora riesce a sedurmi come una ragazzina.
Avrai mai il coraggio di dirmi la verità e, per una volta,
chiedere anche scusa per la stupidità dimostrata?
Avrai mai il coraggio di provare davvero ad amare la donna
che sono? O ne hai paura? Perché potresti scoprire di non riuscire a farlo, sai? perché quello che sono è
molto più di quanto tu possa anche solo immaginare; perché sono molto più bella
di quanto tu potresti mai avere; molto più intelligente di quanto tu possa mai
arrivare ad essere; molto più capace di abbracciare e comprendere di quanto tu
potresti mai meritare e fare.
Caro Te.
Sono qui e ti aspetto. Nessuna resa dei conti. Aspetto un
gesto di quelli che mi hai sempre negato bollandoli come banali per nascondere
una parsimonia che diventa stitichezza anche dei sentimenti.
Aspetto che mi cerchi tu.
Aspetto che mi cerchi tu.
Io sono qui, alla finestra. Ti guardo. Ti aspetto.
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