Libro parlato
Da qualche settimana leggo ad
alta voce per un’associazione a favore di chi, ipovedente o con altre
difficoltà di lettura, non può farlo autonomamente.
Ho dovuto vincere un po’ di
timidezza per registrare le prime pagine e poi farle ascoltare per capire se
potevano andare bene.
Ho dovuto imparare a riconoscere la mia voce registrata,
che non è la voce che sento quando parlo né tanto meno quella che sento mentre
leggo per me soltanto.
Ho dovuto cercare un tono di voce più alto e meno veloce
di come solitamente parlo.
Sto ancora imparando.
Leggo e vivo la fatica del
pronunciare.
Noto i refusi che nella lettura silenziosa sfuggono grazie all’incredibile
correttore automatico che è la nostra vista (e il nostro cervello).
Mi rendo conto di quanto
siano importanti le virgole. E le pause.
Leggo ad alta voce e mi
sembra di riscoprire il silenzio. Lo spazio vuoto tra un paragrafo e l’altro,
tra un punto e il capoverso successivo. Silenzi da riempire di immagini senza
parole e che consentono di disegnare i contorni dei personaggi e gli ambienti in cui
si muovono.
Scopro una volta di più che amo
la parola scritta; che sentire la mia voce che la pronuncia mi gratifica; che pensare a qualcuno che scoprirà un libro tramite la mia voce mi rende
consapevole di una responsabilità bella e un po' timorosa.
Imparo il
rispetto della fatica anche tra le righe che sembrano più lievi e penso che
tutti dovremmo avere qualcuno che legge per noi: anche da adulti, anche con
occhi ancora buoni. Perché tra i doni più belli, tra le magie più incredibili
che possiamo vivere, la Parola, comunque essa ci arrivi, resta la più grande.
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