Accabadora
Accabadora è un libro nero e non poteva che incrociare il
mio cammino in una notte insonne di fine agosto.
“Fillus de anima.
E’ così che li chiamano i bambini generati
due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel
secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo di Bonaria Urrai.”
Maria e Tzia Bonaria, vivono in un piccolo paese sardo, dove tutti sanno e
nessuno dice. Bonaria è sarta,
benestante, vedova senza mai essere stata sposata, non ha figli. Maria è
l’ultima di quattro sorelle orfane di padre e Bonaria decide di prenderla con
sé dopo averla vista rubare poche ciliegie. Iniziano la loro convivenza come
madre e figlia consapevoli entrambe dei desideri dell’altra: per Maria, quello
di iniziare a non pensarsi più solo come “l’ultima”, per Bonaria realizzare una
maternità negata dalla vita.
Bonaria
sceglie Maria e la rende figlia senza diventarne mai davvero madre, perché
madre, lei, lo è in modo differente: invece di dare alla luce, Bonaria Urrai
dona con compassione l’oscurità eterna.
Le due
imparano a conoscersi con poche parole e molta presenza, ma c’è qualcosa che
sfugge a Maria, tra le pieghe delle lunghe gonne nere di Tzia Bonaria, nel suo
silenzio sapiente, nella soggezione timorosa del paese e, soprattutto, nelle
uscite notturne e improvvise che non trovano spiegazione la mattina seguente.
Tutti sanno,
ad eccezione di Maria, che Bonaria è la portatrice di una cultura antica e non
raccontata, che si svela solo nell'invocazione disperata di chi la
vita non può più attraversarla. Allora, e solo allora, dopo aver compiuto un
rituale rispettoso, profondo e misterioso, Bonaria diventa l’ultima madre e, con un gesto
amorevole e pietoso, porta la morte a
chi la implora.
Quando il
mistero si svela, Maria e Bonaria hanno
un confronto che è scontro impietoso e duro al punto da far decidere Maria a
lasciare il paese per Torino. Per lei è
infatti inconcepibile il gesto dell’accabadora che le risponde, e la lascia
andare, dicendole “non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”.
A Torino,
Maria conquista a fatica una certa serenità che viene meno dopo che un’imprudente
comportamento le fa perdere il posto di lavoro. Per questo motivo, e anche per
la lettera di una sorella sulle gravi condizioni di salute di Bonaria, Maria
torna a casa e inizia ad accudire la vecchia Tzia che, nonostante la diagnosi
senza speranza, continua invece un’esistenza insopportabilmente dolorosa.
Ecco che a Maria viene offerta la possibilità di bere
quell’acqua che non avrebbe mai voluto bere.
“Fu alla fine di una
giornata passata a ricamare lenzuola per le nozze di qualcuna e celebrare
rabbie premurose intorno al corpo inerte della vecchia, che qualcosa in Maria
vacillò. (…) Fu la morbidezza stessa del cuscino a lusingarla, niente di
particolare, ma per quel filo di fiato forse sarebbe stato più che sufficiente.
L’immagine fu breve, ma così intensa che Maria dovette sedersi, ansimando del
suo stesso osare.”
Murgia
scrive un romanzo potente, oscuramente pieno di luce, con un linguaggio che
anche a chi non è sardo rende il ritmo della lingua madre.
Scrive di maternità e vita e, pertanto, di dono e di amore fino alla prova più difficile.
Scrive di maternità e vita e, pertanto, di dono e di amore fino alla prova più difficile.
Il libro non
racconta il gesto scelto da Maria e lascia alla sensibilità del lettore, di
ciascun lettore, la conclusione del
romanzo.
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