La casa di Macabea

Ho provato. A cercare le parole, a lasciarmi trovare dalle parole. 
Forse se sapessi stare in silenzio, riuscirei.
Ma i miei pensieri non si fermano; si fermano le mie parole. 
Va bene.

Accolgo l'incapacità di ascoltarmi mentre provo a dire tutto il dolore che mi ha urlato dentro e che ancora è lì, pronto a ripetersi. 

Non si può dire, io non so dire, il dolore del convivere col terrore di perdere un figlio perché lui pensa di volersi fare perdere.
Ma lui è qui. Noi siamo qui. E barcollando ci teniamo per mano.

Raccontarmi scrivendo è sempre stato il mio modo per sopportare il peso di ciò che non so dire ad alta voce. Scrivere è la mia voce. 
Ho appunti straripanti di prime righe lasciate a diventare anche le ultime. 
Punto. 

Sento il desiderio necessario di spalancare la porta di casa di Macabea e inondarla di nuova luce. 
Lì posso essere quello che sento, vederlo uscire da me, diventare più leggero, per poi riprenderlo. Anche tacendo.

In questo ultimo anno abbiamo ancora una volta reinventato tutto. Abbiamo immaginato nuovi equilibri e disequilibri. Ci siamo amati immensamente e abbiamo litigato tanto. Urlando e tacendo.

Soprattutto abbiamo imparato, stiamo imparando, la gratitudine degli attimi, e questa la so raccontare. 
Ecco.

Io riparto da qui. Macabea riparte da qui: dalla gratitudine minuscola che le fa tremare il cuore quando, come stanotte, non dorme e immagina di ascoltare il respiro lontano del sonno di chi ama.

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